martedì 28 giugno 2011

MISERA ME! PUNTATA N° 1 -VOTATE!

Dicembre - Sono seduta su questa panchina di legno e ferro battuto. Mi sono bordata di sciarpa fino al naso, occhiali da sole e berretto. Sia mai che qualcuno mi riconosca. In fin dei conti ci sono vissuta 20 anni qui. Tutti mi conoscono nel raggio di 4km. Chiunque passi potrebbe riconoscermi senza questa copertura d’emergenza. Il sole sta calando, ma la visibilità è ancora ottima, inizia ad essere freddo e forse dovrei iniziare a pensare di levare le tende, ma non riesco a staccargli gli occhi di dosso.
E’ immensa. Davanti a me un immenso splendore
 di mattoni, intonaco rosa e tegole. Un giardino luccicante e una siepe verdissima, più verde dell’erba del vicino. Un cancelletto piu piccolo, verde scuro, e accanto uno più grande, comandato a distanza. Mi ricordo che da piccola temevo che Charlie, il mio cane, rimanesse spappolato dentro il buco dove, grazie ad un binario, il cancello andava ad infilarsi. Neanche fosse stato un cretino… mi piace enormemente quella cassetta della posta in rame, che hanno mantenuto uguale uguale. A parte il nome. Non c’è più il mio cognome, cazzo. Ce n’è uno che non centra niente. Un nome insensato, stupido e inutile come le persone che ora stanno li dentro la mia cucina, stesi sul divano del mio salotto, a pisciare sul water del mio bagno e a gingillarsi i gioielli nella mia jacuzzi.  Un lampo attraversa il mio sguardo. Rientrerò in quella casa.

Ci devo rientrare.

Devo farlo, devo rivederla. Devo camminare sul granito della zona giorno e sul parquet della zona notte, voglio toccare con queste dita il muro liscio spatolato di rosa, voglio ripercorrere il corridoio di specchi e giocarci come facevo quando ero piccola. Voglio risalire le scale di legno a piedi scalzi, voglio uscire nel mio terrazzo, stendermi sul letto singolo della mia stanzetta tapezzata di poster e voglio anche riaprire la botola che portava in soffitta: quella botola che si apriva con il paletto lungo e dorato agganciandolo ad essa e che aprendosi ti offriva un groviglio di scale che potevi allungare fino a terra. Voglio poi scendere le scale di cotto con il corrimano di ottone dorato ed entrare in taverna, sedermi su quelle 12 sedie (sì, su tutte!!!) cosi grandi da non potersele immaginare, pesantissime, importanti e protettive.

Lo farò. A costo di farmi arrestare, ma entrerò.

Quando torno a casa i gatti mi salutano, questi maledetti l’hanno fatta di nuovo dentro! Lo sento! Senti che puzza! Apro immediatamente le finestre e lascio che l’aria entri e purifichi questo misero salotto. Cerco la malefatta sotto il divano, ma non c’è. Dove cazzo l’hanno fatta? Vabbè, poi la cerco! Non mi ha fatto bene stare lì davanti tutto quel tempo. Il mio castello mi manca, mi manca terribilmente. Ed entrare qui dentro me lo fa ricordare ancora più luccicante di quello che realmente era. Vado nel misero bagno e mi siedo sul misero cesso a posare queste misere chiappe per fare la pipì. Anche il mio culo vale di meno, da quando non abito più nella vera CASA. Nemmeno un “Topolino” da sfogliare finche sono seduta qui!? Beh è vero, son passati dieci anni, ma che c’entra? Farmene una ragione? Ma cosa state dicendo? Non si può farsene una ragione.
Mi spoglio, tiro l’acqua ed accendo l’acqua della doccia, bollente. Mi sposto davanti allo specchio, mi spettino la chioma e mi osservo. Grassa, con il trucco colato sotto gli occhi, pelle orribilmente lentigginosa. La mia espressione la dice lunga, un mix tra il depresso, incazzato e sfigato. Devo fare qualcosa, non posso continuare cosi. Devo fare una dieta, comprarmi una di quelle confezioni di “cambia pelle”, portarmi la trousse dei trucchi nella borsetta come fanno le mie colleghe e magari dopo aver venduto il mio corpo a qualche estraneo dovrei anche andare a rifarmi il guardaroba. Lavoro in un’azienda di moda di fama internazionale e vado in ufficio con gli stessi abiti con i quali due anni fa andavo a lavorare al mercato comunale ortofrutticolo. Forse devo proprio darmi una regolata. Finche penso a tutte queste cose i miei occhi si iniettano di odio. Devo anche smetterla di avere pena di quei 4 gatti pulciosi pelosi e grassi e anche se fa freddo li devo lasciare fuori di giorno quando sono al lavoro: continuano a farla in giro per la casa, almeno se faccio cosi la faranno fuori e  la mia già di per sé misera casa smetterà di puzzare di merda! Non mi vedo più…che succede? Ah…la doccia… il vapore… lo specchio.

Quando esco dal bagno con le ciabatte inzuppate e la pelle che fuma trovo il branco che mi aspetta in riga davanti alla porta. Ma Santo Cielo! Pesano 10 kg l’uno e hanno sempre una fame da terzo mondo. Mi trascino in cucina e apro lo sportello sopra il frigo, prendo il sacco delle crocchette e i bastardi iniziano ad urlare come fossero quarant’anni che non vedono traccia di cibo. I miei vicini staranno sentendo tutto, e alla prossima riunione condominiale saranno cavoli amari, come ogni riunione. Mi fiondo angosciata in velocità verso le ciotole, so che appena inizio a versare le palline puzzolenti nelle loro ciotole colorate, si tapperanno quella boccaccia. Le raccolgo, le poso in riga sulla mensola di legno e le riempio di crocchette. Il tutto con velocità degna di Carl Lewis.  I miagolii e i lamenti aumentano di volume attimo dopo attimo, il mio cervello sta impazzendo, se non la smettono subito verrà qualche vicino a bussarmi alla porta per lamentarsi! Devo fare in fretta e in preda ad una crisi simile a quella di abuso di anfetamina corro (con le ciotole in bilico una sopra l’altra) dalla cucina verso il terrazzo per sbattere fuori queste 4 palle di lardo : non mi accorgo della tapparella semi-abbassata e come in un film di stanlio e ollio (ovviamente indovinate in chi dei due mi riconosco) la prendo in piena fronte e cado distesa a terra. Credo di perdere i sensi per qualche attimo e quando riapro gli occhi mi rendo conto di essere ricoperta da quelle puzzolentissime crocchette sparse in ogni cm del mio corpo. E i gatti le stanno mangiando. La testa mi si accascia di nuovo a terra.
Misera me.

Il pc si sta accendendo qui in ufficio, qualcuno ha aperto le finestre per ripulire l’aria viziata, e fuori gli alberi sono ricoperti di ghiaccio. Vabbè… Eccola sta arrivando, potrei riconoscerla tra mille tacchi. E’ lei,  Sgambettona.  Alta almeno 1.80, con i boccoli biondi fino a poco sopra le spalle, lampadata, occhi verde smeraldo, pelle delicata e lentigginosa, minigonna vertiginosa e tacchi 12 anche al discount. Gambe lunghe e turgide, dentoni pronunciati, mento alto e scia di profumo, ovviamente griffato. Quando cammina i suoi boccoli dondolano a ritmo delle chiappe alte e sode e delle tette di marmo. Inutile girarci intorno, è veramente l’apoteosi della femminilità e potrebbe vincere il premio “quella che più se la tira in tutta la provincia”.
Io non riesco ad essere cosi. Eppure scommetto che se lei si vestisse come me perderebbe miliardi di punti. Forse io sono meglio di lei… No, ok … ho detto una cazzata. Lei ha un fisico perfetto, io no. Anzi. Però mi ci metto pure io cavolo, vestendomi come una terremotata o come una che sta andando a fare una gita nei boschi, o una passeggiata in campagna. Il fatto è che io non riesco a camminare sui tacchi. Adoro le scarpe con i tacchi, se sapessi camminarci mi comprerei un tacco 12 una volta a settimana, ma quando ci sono sopra non riesco a fare nemmeno tre passi senza rischiare di slogarmi una caviglia. Ci sono donne che ci corrono con quei trampoli, io nemmeno con un tacco da 4 x 4 riesco a camminare disinvolta.
Cerco di lasciar correre via questo pensiero e mi siedo davanti al pc. Poggio il mento sulle mani e mi metto a pensare… la mia casa…la mia casa… come posso fare per entrarci nuovamente? E’ diventata un’ossessione oramai…

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